Il rumore sordo dei cancelli che si chiudono alle mie spalle (ne ho contati tre, senza voltarmi); quello delle chiavi che girano a tripla mandata nella toppa mentre le altre, libere, tintinnano nel mazzo. Rumore di ferro che stride. È il ricordo uditivo del mio unico giorno trascorso per lavoro in un luogo di reclusione.

Penso ad Anita che di anni in carcere ne ha passati quindici, chiamata a condurre corsi di risocializzazione attraverso il teatro.

A Montelupo Fiorentino, in Toscana, c’è una villa medicea rinascimentale, detta dell’Ambrogiana. La trovate sulla riva sinistra dell’Arno: è quella con le quattro torri angolari e il giardino all’italiana. Dal 1886 manicomio criminale (il primo in Italia), lo resterà per centotrenta anni. In seguito prenderà il nome di O.P.G., Ospedale Psichiatrico Giudiziario, fino alla sua definitiva chiusura nel 2017.

Mi chiedo cosa sia fare l’operatrice in quel luogo, portarci il teatro, lavorare con i folli rei. E cosa accade se decidi di passare, lì, un’intera estate in mezzo ai libri?

Anita toglie lentamente i libri dalla sacca: Dante, Calvino, Baudelaire, De Cervantes, classici per lo più. Li dispone con cura. È sempre la prima ad arrivare. Li aspetta. Ogni volta qualcuno si aggiunge. Il percorso di lettura è già ben avviato ma oggi è il primo di tanti giorni speciali: sopra di loro uno spicchio di cielo, regalo conquistato grazie a un’estate troppo calda e alla possibilità di usare una piccola corte all’aperto.

Lei ha chiesto solo che si togliessero i pigiami e che giungessero all’appuntamento vestiti. Come si fa quando si esce. In lockdown ci siamo affezionati ai nostri pigiami: funziona così quando non devi andare da nessuna parte.

Arrivano.

Avete mai pensato al passo del detenuto? Si trascina con ritmo sempre uguale, torna sempre sui propri passi. È la cella che dà la misura. Se ti va bene, il cortile della passeggiata. Si avvicinano ai libri, chiedono il permesso, li prendono. Ma è nell’allontanarsi che qualcosa muta: le storie in cui si immergono li portano via e dimentichi del mondo si liberano dal passo. Chi si siede, chi resta in piedi. Non c’è imposizione, soprattutto se arrivi da giorni di reclusione obbligata. Sono allievi di un corso di teatro e Anita è la guida che sa aspettare la voce più audace che propone di leggere insieme. Non è lì per supporto psicologico ma per lavorare con i suoi allievi, esattamente come fa fuori.

Non si può capire l’importanza del libro se in quel luogo non ci sei entrato. Gli allievi non godono tutti degli stessi permessi: alcuni possono riunirsi in sala TV, altri sono soggetti a restrizioni più dure, magari non escono dalle loro celle per giorni e giorni, talvolta lo fanno se c’è un parente in visita. Ma si tolgono i pigiami e vanno a lezione: se potessero, lo farebbero ogni giorno. Da quei libri è nato uno spettacolo teatrale che ha persino coinvolto le guardie nella messa in scena. Dalla parola scritta al porto franco, che è quel fuori in cui il teatro può condurti ingannando le impossibilità del reale.

Talvolta i libri non sono tornati, anche quelli con dediche care. I libri raminghi, li chiama Anita, ma non c’è amarezza nelle sue parole.

(Dalla preziosa testimonianza di un’operatrice di teatro-carcere)


27 marzo 2021, VIII Giornata Nazionale del Teatro in Carcere.

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