Omaggio a Baudelaire in occasione del bicentenario dalla nascita

di Chiara Pasetti

Singolari e bizzarre le corrispondenze che legano due fra i più grandi capolavori dell’Ottocento francese e non solo, Madame Bovary e I Fiori del male. Innanzitutto, i rispettivi autori, Flaubert e Baudelaire, nacquero nello stesso anno, il 1821; secondariamente i loro testi più celebri, benché preceduti da pubblicazioni su riviste, uscirono in volume soltanto nel 1857, e finirono entrambi a processo con l’accusa di «oltraggio alla morale pubblica, alla religione e ai buoni costumi».

E ancora, entrambi si trovarono di fronte allo stesso avvocato dell’accusa, il procuratore imperiale della Senna Ernest Pinard, fortemente motivato a dimostrare che queste due opere dalla «pittura lasciva» potevano portare «all’eccitazione dei sensi».

Ma se Flaubert con la sua Madame Bovary verrà assolto nel febbraio del 1857, nel momento in cui il manoscritto dei Fiori veniva consegnato all’editore Poulet-Malassis, al grande poeta toccherà una sorte diversa; il 20 agosto del 1857 sarà condannato a pagare un’ammenda di 300 franchi e soprattutto si vedrà censurate, delle tredici inizialmente incriminate, sei liriche (verrà escluso il reato di offesa alla religione ma mantenuto quello contro la morale e i buoni costumi).

Tra il mese di marzo e i primi di giugno Baudelaire corregge le bozze con tutta «la precisione e l’intensità» che metteva in questa operazione, «proporzionale agli sforzi che gli erano costate», racconta l’amico Charles Asselineau nella prima biografia in ordine di tempo dedicata al «poeta di genio». Il volume, atteso dai letterati e dalla critica, esce a fine giugno, e immediatamente genera una campagna denigratoria soprattutto da parte dei giornali conservatori, che si permettono addirittura di dubitare dello stato mentale dell’autore: «qui l’odioso rasenta l’ignobile, il ripugnante va a braccetto con il fetido», scrive il «Figaro».

L’editore ritira le copie dalle librerie; subito due articoli escono in difesa delle poesie, l’uno firmato da Thierry, che parla dei Fiori come di «un Eden dell’inferno», e l’altro da Dulamon, il quale ricorda Baudelaire anche come «eccellente e scrupoloso» traduttore di Poe e afferma che «la constatazione del male non significa la sua criminale approvazione», ma i due testi, magistrali, scritti da d’Aurevilly e Asselineau non potranno comparire. Il primo parla del «talento incontestabile del poeta drammatico», sottolinea la spiritualità e la moralità che si ricava dai suoi «fiori maledetti» e li paragona ai versi di Dante, la cui opera «viene dall’inferno, mentre quella di Baudelaire ci va».

Il 9 luglio del 1857 Charles scrive alla madre: «Fleurs du mal, il titolo dice tutto, è rivestito di una bellezza sinistra e fredda, è stato fatto con furore e pazienza. Del resto la prova del suo valore positivo è in tutto il male che ne si dice».

Né classico né romantico, questo «spirito tormentato», come lo definisce il moralismo intransigente dell’avvocato dell’accusa, sconcerta i contemporanei per il mélange esplosivo di spleen e idéal, di elevazione e caduta, dolcezza e rabbia; antitesi di cui è riuscito con la sua «architettura segreta» a creare una sublime, «grande sintesi» nella «voluttà perpetua del mio tormento ordinario», l’Arte.

«Sia moralmente che fisicamente, ho sempre avuto la sensazione dell’abisso»; sensazione mirabilmente espressa in tutte le poesie e nei Petitspoèmes en prose, dove troviamo due immagini che forse più di altre racchiudono il poeta stesso e la sua continua tensione oscillante tra slancio e abisso. Si tratta della metafora-poesia dell’albatros e quella del vecchio saltimbanco.

Nel primo caso Baudelaire si cela dietro al principe delle nubi che esiliato in terra, fra gli scherni, non può camminare a causa delle sue ali di gigante. Nel secondo il povero saltimbanco, caricatura sarcastica, dolorosa e commovente di se stesso, «derisoria epifania dell’arte e dell’artista», come scrive Starobinski, suscita nell’autore una profonda compassione poiché vi vede riflessa «l’immagine dell’uomo di lettere che è sopravvissuto alla generazione di cui fu il brillante intrattenitore, del vecchio poeta senza amici, senza famiglia, senza figli, degradato dalla miseria e dall’ingratitudine pubblica».

Righe profetiche di colui che, di lì a poco, diventerà anch’egli «un rudere d’uomo» a causa dell’ictus che gli toglierà la parola, e righe che denunciano, malgrado il suo «gusto vivissimo della vita e del piacere», tutta la sua solitudine: «dall’infanzia, nonostante la famiglia e in mezzo ai compagni soprattutto, sentimento di un destino eternamente solitario», confessa in Mon cœur mis à nu.

Dopo il processo e la condanna, che Baudelaire considerò sempre come un «malinteso molto strano» che aveva offeso e mutilato i suoi fiori dal «profumo vertiginoso», ma non certo «velenoso» come voleva Pinard, il fedele Asselineau, il quale nella biografia postuma ne riscriverà la difesa concludendo con un severo ammonimento a non scoraggiare i poeti («ne avete uno, state attenti a non umiliarlo»), gli chiese se si aspettasse l’assoluzione. Baudelaire rispose: «Assolto? Mi aspettavo che mi porgessero le loro scuse!». Non lo fece nessuno.

Le poesie censurate verranno reintegrate soltanto nella terza edizione de I Fiori del male a cura di Banville e dello stesso Asselineau del 1868, dunque un anno dopo la morte di Baudelaire. Nel 1949, su istanza della “Société de gens des lettres”, la condanna sarà annullata, ma lui non potrà più saperlo.


Si ringraziano l’autrice e «Il Fatto Quotidiano» per averci concesso la pubblicazione in forma ridotta dell’articolo

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