A. Borodin, Nelle Steppe dell’Asia Centrale

Korolev: fase preliminare … intermedia … principale … decollo! Ti auguriamo un buon volo. È tutto a posto.

Gagarin: Andiamo! Arrivederci, fino a quando ci rincontreremo, presto, cari amici!

Sono stato il primo uomo a viaggiare nello spazio e a tornare sulla terra, a poterlo raccontare. Laika, una piccola randagia di cane, primo essere vivente lanciato in orbita, dopo nove giri intorno alla Terra morì carbonizzata, e insegnò al Programma Spaziale Sovietico come proteggere l’abitacolo di un’astronave dalla violenza dei raggi solari.

Dallo Sputnik al Vostok 1, erano cambiate molte cose. Così io salii a bordo il 12 aprile 1961, e staccatomi dall’elemento propulsore, fui milioni di chilometri distante dal nostro pianeta in orbita ellittica, e lo vidi dallo spazio: misterioso e blu, lontano e poi, tornando nell’atmosfera terrestre, più vicino. Infinitamente mio e sconosciuto allo stesso tempo.

Il mio addestratore per il programma Vostok si chiamava Borodin, come il compositore di quel pezzo meraviglioso, le Steppe dell’Asia Centrale, in cui due temi — uno tradizionale russo, uno esotico e orientale — si intrecciano crescendo e diminuendo e donano il senso di qualcosa di familiare che piano si allontana, lasciando terreno all’ignoto pieno di fascinazione, fino a che poi è la familiarità che torna, e l’ignoto di nuovo sfuma. Così fu il pianeta Terra visto dallo spazio per me.

Dissero che ero atterrato con la navicella Vostok; mentirono. A settemila chilometri dalla terra mi lanciai con il paracadute, e la musica del cosmo sfiorò i contorni del corpo, per quanto il mio fosse protetto in una corazza antiradiazioni. La terra, il punto lontano, cominciò a crescere mentre il vento atmosferico mi confondeva la percezione, e dal nero emerse il chiarore del giorno, dall’indefinito tornò il colore: il verde degli alberi, il grigio degli elementi, il bruno della terra.

Atterrai a Ėngel’s, non lontano dalle steppe kazake le cui melodie mi avevano accompagnato nel viaggio. Fui detto eroe nazionale, la mia fama divenne planetaria, ebbi incarichi nel Soviet, mi attribuirono persino meriti mai avuti.

In realtà ero stato un pilota mediocre, e solo la mia grande affidabilità e volitività mi condussero all’apice. Nonostante la laurea in ingegneria aerospaziale e i ripetuti incarichi alla formazione degli astronauti delle successive missioni Soyuz, non mi fu più permesso di tornare nello spazio. L’Urss non poteva privarsi del suo più grande eroe; la mia figura venne piegata alle necessità dello Stato. La passione per il volo restò a farmi compagnia e mi fece trovare la morte, a 34 anni soltanto, sette anni dopo il salto nei cieli.

E se la vita l’avevo vissuta così, come in un grande sogno, come in un’ebbrezza prolungata, fu lo schianto al suolo a portarsi via tutto quello che era stato, lasciandomi solo la melodia dell’ignoto, di tutto ciò che non avrei potuto più vivere.

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