Gianna Nannini, Ragazzo dell’Europa

9 Maggio 2021 – Giornata dell’Europa

La Festa dell’Europa quest’anno segna il 70° Anniversario dalla Dichiarazione di Schuman, rilasciata dal Ministro degli Esteri Francese, Robert Schuman, il 9 maggio del 1950. In questa, fu lanciata la proposta di un mercato comune del Carbone e dell’Acciaio. L’istituzione della CECA che ne derivò fu sancita da Francia, Germania Occidentale, Italia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo, e fu il primo di una serie di accordi che avrebbero condotto alla Fondazione dell’Unione Europea. Gli stati membri, preoccupati di risollevarsi dalle conseguenze devastanti della Seconda Guerra Mondiale e tesi a impedire nuovi conflitti, in particolare tra Francia e Germania, pensarono che mettere in comune gli interessi economici avrebbe contribuito a migliorare i livelli di vita e a creare un’Europa più unita.

Se oggi, settanta anni dopo, onoriamo la data, è perché certamente la dichiarazione di Schuman ha raggiunto il suo obiettivo principale: quello di assicurare ai paesi che man mano si sono accordati per confluire nell’assetto di questa nostra Europa una convivenza pacifica.

Nel presente momento storico l’essenza vera dei patti europeisti si è fatta sfuggente. Ci è dato spesso di dubitare che la cessione di sovranità da parte di ciascun Stato all’organismo Comunitario sia valore; questo dubbio si insinua tanto più forte man mano che le testimonianze di chi la guerra l’ha vissuta vengono a mancare. Le nuove generazioni si rivelano poco consapevoli di cosa voglia dire, per tutti noi, l’assenza di conflitti armati, un clima di relazioni solidali, obiettivi che vengono perseguiti in sinergia.

Io sono andata a vivere all’estero a 24 anni, ho vissuto e lavorato in seno a Istituzioni Europee per quasi trenta. Le mie amicizie sono state europee, le lingue che mi hanno consentito di esprimermi sono lingue dell’Europa. A ventiquattro anni ho viaggiato da sola e di notte sui treni dell’emigrazione. Fine degli anni ’80, eravamo tra i primi giovani che praticavano l’emigrazione intellettuale, usciti dagli studi senza prospettive professionali nella propria terra.

Ho percorso i binari della gelida Svizzera, tra canali di vallate così estranee al mio mare, allora l’unica natura che conoscevo bene. Ho dormito su sedili di scompartimenti accalcati, col puzzo di salame e di piedi. Ho ascoltato storie di gente smarrita, persone che avevano trascorso anni e anni in luoghi che sarebbe rimasti loro estranei per sempre. Ho conosciuto nonne incredule, le ho viste tornare ormai vecchie ai paesi del Sud, accompagnate da nipoti che non parlavano la lingua degli avi e che non avevano mai visto la terra dei padri. Mi sono impegnata a imparare una nuova lingua e una nuova civiltà quanto più in fretta possibile per non sentirmi estranea anche io. Lo stesso mi hanno deriso per aver usato male una parola, o sgridato per non aver capito una regola.

Ho insegnato alle scuole serali tornando a casa a buio pesto su strade ghiacciate, a meno 20 gradi sotto zero; ho insegnato la mia lingua a persone che l’ammiravano e la trovavano bellissima. Per trenta anni ho macinato chilometri in su e in giù per passi alpini e autostrade, tornando sempre a casa con la stessa felicità, ogni volta, di poter tornare a casa. Ho esercitato i diritti e i doveri di cittadina italiana e quelli di cittadina dell’Europa.

Non mi sono lamentata della mia vita nei luoghi che mi hanno concesso accoglienza e riconoscimento professionale, neppure quando il mio primo appartamento era di 35 metri quadri al 16° piano di una periferia verde e anonima, nemmeno quando il mio primo compenso orario per l’insegnamento erano dodici marchi lordi. So quante persone, come me e più di me, hanno vissuto il conflitto interiore tra identità sociali, tra diverse culture, che col tempo diventano terreno di scontro interiore, substrato di nostalgie e di sensi di inadeguatezza ovunque ci si trovi.

Forse l’Europa per me è stata soprattutto un luogo neutro, dove non mi dovevo sdoppiare, dove ero accolta con tutte le stranezze che una vita fuori dai confini ti dissemina nello scorrere degli anni. Non sono mai stata meno italiana, fuori dall’Italia, in certo senso lo sono diventata di più.

Quando penso a tutto quello che questa Unione non ha saputo dare, fare, garantire, trasformare effettivamente – ai limiti che sono rimasti, pur nei vari passi di avvicinamento, dalle intenzioni primarie della dichiarazione di Schumann all’esistenza di questo Paese Europa che ora siamo noi – penso contemporaneamente a quella che è stata l’esperienza di mio padre e mia madre, che si sono sposati sotto le bombe giusto in tempo perché mio padre tornasse all’Ospedale Militare dove era in servizio, e mia madre ai rifugi degli sfollati sulle colline lucchesi. Io non so dire nonostante tutto in che modo io oggi sia più consapevole di altri del senso di questo essere europei.

Quando ritorno ai miei anni di ragazza in giro per frontiere non ancora scomparse, mi vengono struggenti in mente le note di una canzone di Gianna Nannini, che faceva così:

Tu che guardi verso di me
Hai visto i tori nel sonno ed hai lasciato Madrid
Stai nei miei occhi e racconti
Le sirene e gli inganni del tuo sogno che va
Tu ragazzo dell’Europa
Tu non perdi mai la strada

Tu che prendi a calci la notte
Bevi fiumi di vodka e poi ti infili i miei jeans
Tu cominci sempre qualcosa
Poi mi lasci sospesa e non parli di te
Tu ragazzo dell’Europa
Tu col cuore fuoristrada

Tu che fai l’amore selvaggio
Trovi sempre un passaggio per andare più in là
Viaggi con quell’aria precaria
Sembri quasi un poeta dentro i tuoi boulevard
Tu ragazzo dell’Europa
Porti in giro la fortuna

Tu che incontri tutti per caso
Non ritorni a Varsavia per non fare il soldato
Ora vivi in mezzo a una sfida per le vie di Colonia
E non sai dove sei

Tu ragazzo dell’Europa
Tu non pianti mai bandiera
Tu ragazzo dell’Europa

Tu non pianti mai bandiera
Tu ragazzo dell’Europa
Tu non pianti mai bandiera

So che ho annusato da vicino tanti ragazzi dell’Europa, e che mi sono rimasti un po’ dentro, che io sono tutti loro e loro sono un poco anche me.

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